Le foreste sono cruciali per raggiungere gli obiettivi di Parigi?
L’Accordo globale per ridurre le emissioni di gas serra, raggiunto al Parigi nel dicembre 2015, ha l’obiettivo di mantenere l’aumento delle temperature medie globali ben al di sotto dei due gradi rispetto all’epoca pre-industriale (art 2.1.a). Questo obiettivo necessiterà di “raggiungere un equilibrio tra emissioni ed assorbimenti antropici di gas serra” (art. 4.1),
in linea con le indicazioni dell’IPCC. Come già spiegato, la portata storica dell’Accordo è dovuta al fatto che, per la prima volta, praticamente tutti gli Stati del mondo di sono impegnati formalmente a ridurre le loro emissioni entro il 2030, attraverso dei piani di mitigazione chiamati “Nationally Determined Contribution” (NDC). Questi impegni hanno rappresentato un primo importante passo nella giusta direzione, ma non sono ancora sufficienti. In tutto questo, cosa c’entrano le foreste?
Gli ecosistemi terrestri, ed in particolare le foreste, sono parte della causa e parte della soluzione del problema cambiamenti climatici. Causa perché la deforestazione (soprattutto tropicale) è responsabile di circa il 10% delle emissioni antropiche di gas serra a livello globale. Soluzione perché già oggi le foreste assorbono circa un terzo delle emissioni antropiche globali di CO2. Dobbiamo quindi da un lato ridurre la deforestazione, e dall’altro cercare di preservare – e dove possibile aumentare – l’assorbimento di CO2, ad esempio attraverso la gestione sostenibile delle foreste e favorendone l’espansione.
In teoria, l’importanza della gestione degli ecosistemi terrestri è riconosciuta delle Nazioni Unite attraverso il settore “LULUCF” (Land Use, Land Use Change and Forestry), che include emissioni ed assorbimenti di CO2 dai suoli agricoli e soprattutto dalle foreste (ma non include le emissioni non-CO2 da parte dell’agricoltura, che sono riportate in un altro settore). Sul lato pratico, finora questo settore è sempre stato ai margini delle negoziazioni climatiche, sia per l’incertezza delle stime di emissioni ed assorbimenti, più elevata rispetto ad altri settori, che per la difficoltà nel quantificarne la mitigazione, cioè l’impatto specifico delle azioni umane rispetto ai flussi di gas serra in “sottofondo”, legati al ciclo naturale. Ad esempio, se l’afforestazione e la deforestazione sono chiaramente provocate dall’uomo, meno facile è dire quanto la crescita delle foreste esistenti sia direttamente legata alla loro gestione attiva e quanto ad altri fattori (ad es., “fertilizzazione” dovuta all’aumento della CO2 e dell’azoto nell’atmosfera).
L’Accordo di Parigi ha spostato le foreste più al centro della scena. D’altronde, in attesa che le tecnologie in grado di generare emissioni negative diventino operative su larga scala (se mai lo diventeranno), la gestione degli ecosistemi terrestri rappresenta l’unico meccanismo capace di garantire gli “assorbimenti antropici di gas serra” necessari per raggiungere gli obiettivi di Parigi.
Un recente studio apparso su Nature Climate Change ha dettagliatamente quantificato il ruolo globale degli ecosistemi terrestri all’interno dei piani di mitigazione dei vari Paesi (NDC), basandosi su una moltitudine di dati riportati dai Paesi stessi (soprattutto negli inventari di gas serra nazionali) e poi confrontandoli con le stime presenti nella letteratura scientifica (un commento allo studio si può ascoltare nella trasmissione Le Oche di Radio Popolare, dal minuto 30.36 al minuto 47.41 qui).
I risultati possono apparire sorprendenti: con gli impegni degli INDC i Paesi intendono far sì che il settore LULUCF (dominato dalle foreste) passi da essere una fonte netta di emissioni (nel periodo 1990-2010) ad un assorbitore netto di CO2 entro il 2030, arrivando a fornire il 25% degli obiettivi di riduzione delle emissioni a livello globale nel caso di supporto tecnologico-finanziario ai Paesi in via di sviluppo (vedi “conditional INDC” nella figura sotto).
La domanda che a questo punto sorge spontanea è: possiamo fidarci? Che probabilità ci sono che questi impegni saranno rispettati? E chi controlla le stime dei Paesi?
Lo studio evidenzia una serie di criticità da affrontare affinché la “promessa di mitigazione” da parte delle foreste si possa trasformare in realtà.
Prima di tutto, occorre maggiore trasparenza nei piani di mitigazione dei Paesi, nonché maggiore completezza ed accuratezza nelle stime degli inventari di gas serra.
In secondo luogo, occorrerà rafforzare ed estendere il sistema di revisione degli inventari di gas serra dei Paesi, come già previsto a grandi linee nell’Accordo di Parigi (ma ancora da definire nei dettagli). Questi inventari saranno la base per valutare la performance dei singoli Paesi, e quindi la loro credibilità sarà assolutamente fondamentale per il successo dell’Accordo di Parigi.
Infine, la credibilità di questa mitigazione può essere minata dalle notevoli discrepanze tra la somma delle stime fornite dai Paesi alle Nazioni Unite (tramite gli inventari dei gas serra) e le stime globali incluse nei rapporti IPCC (derivanti dalla comunità scientifica). In sintesi, gli inventari di gas serra includono tutto l’assorbimento dei gas serra che avviene nelle foreste “gestite” (seguendo le indicazioni delle guide metodologiche dell’IPCC), senza distinguere specificatamente la componente direttamente dovuta all’uomo. I rapporti IPCC, invece, assumono di fatto che quasi tutto questo assorbimento sia naturale.
Tutto questo rappresenta una sfida e un’opportunità per la comunità scientifica. In primo luogo, gli scienziati dovranno non solo aiutare i Paesi a migliorare le loro stime di gas serra, ma anche fornire stime indipendenti per verificare che gli inventari dei paesi siano corretti. Oggi, ad esempio, sta aumentando enormemente la disponibilità di dati satellitari per monitorare in modo indipendente le aree soggette a deforestazione, anche tramite facili applicazioni disponibili a tutti.
In secondo luogo, vi è un urgente bisogno di tentare di colmare le differenze tra le stime globali di gas serra effettuate dagli Paesi e quelle dell’IPCC. Riconciliare queste differenze richiederà uno sforzo senza precedenti di comprensione reciproca e di cooperazione tra la comunità scientifica e i responsabili degli inventari dei gas serra nazionali. Questo non è solo un auspicio, è una necessità: il `Global Stocktake’, cioè il check-up sui progressi verso il raggiungimento degli obiettivi di Parigi (previsto ogni 5 anni, a partire dal 2023) sarà basato sia sulle stime ufficiali degli Stati che sui rapporti IPCC. Senza parlare la stessa lingua, ad esempio su cos’è “l’assorbimento antropico di gas serra”, una piena valutazione dei progressi sarà impossibile.
Senza illudersi che le foreste possano da sole risolvere il problema dei cambiamenti climatici – una drastica riduzione delle emissioni da combustibili fossili sarà in ogni caso necessaria – il contributo che potranno dare agli obiettivi di Parigi sembra rilevante.
Meglio dunque tenercele ben strette, queste foreste, cercando di capirne e sfruttarne al meglio le potenzialità di mitigazione ed aumentando la credibilità delle stime di gas serra.
Testo di Giacomo Grassi, con contributi di Marina Vitullo e Sylvie Coyaud
9 responses so far
““fertilizzazione” dovuta all’aumento della CO2 e dell’azoto nell’atmosfera”
confesso la mia ignoranza: c’è un aumento di azoto nell’atmosfera che fertilizza la vegetazione o intendevate i fertilizzanti azotati sparsi sulle colture?
E già che siamo quasi in tema. Ogni tanto sento evocare il ruolo che l’agricoltura potrebbe svolgere nella mitigazione nel senso di conservare più carbonio nei suoli: mi pare si parli ad esempio di arature poco profonde, di charcoal, e altro che non so bene.
Qualcuno ne sa di più? penso cmq di conoscere già parte della risposta e cioè che, in ogni caso, da lì non ci possiamo aspettare miracoli.
grazie
Brevemenete:
Azoto. Una serie di processi antropogenici rilasciano composti azotati in atmosfera (altri possono sicuramente spiegare ulteriori dettagli). Ricadendo al suolo, generano un effetto “fertilizzante” che stimola generalmnete la crescita delle piante. C’e’ ampia letteratura scientifica a riguardo (es. http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/j.1365-2486.2009.02102.x/abstract).
Agricoltura. Ci sono potenzialita’ di ulteriore accumulo di carbonio nel suolo, mai hai ragione, non possiamo aspettarci miracoli (es. https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/26732128). A mio avviso, il ruolo dell’agricoltura e’ cruciale soprattutto per preservare il carbonio esistente.
@giacomo
grazie, ho imparato una cosa nuova.
Segnalo che proprio in questi giorni si sta svolgendo a Roma, presso la FAO, un importante convegno sul’accumulo di carbonio nei suoli, il
Global Symposium on Soil Organic Carbon, che si può seguire anche via web grazie all’ottimo webcast http://www.fao.org/webcast/en/
Secondo l’ articolo citato imo non ci sono validi motivi per fidarsi dei dati contenuti negli inventari nazionali.
Nell’ abstract la discrepanza della somma dei dati “autodichiarati” dai singoli Paesi al 2010 rispetto a quelli ottenuti da indagini scientifiche è un valore inaccettabile: 3 GtonCO2eq al 2010 (vedere anche la fig. 2 dell’ articolo originale).
Se i dati IPCC fossero più corrispondenti alla realtà ciò significa che, nello scenario parigino più roseo (linea verde del grafico 1), invece di un ipotizzato assorbimento di carbonio al 2030 di poco oltre 1 Gt in realtà avremmo un’ emissione di circa 2 Gt.
La comunità scientifica ha il dovere di cercare la verità e di controllare se i dati forniti dai singoli Paesi siano sottostimati, come a tutt’ oggi appaiono, o meno.
X Alberto.
L’articolo non dice che non ci si debba fidare degli inventari nazionali. Dice semplicemente che c’e’ una discrepanza con le stime scientifiche, in larga parte dovuta a un diverso approccio nello stimare cos’e’ l’assorbimento “antropogenico” di CO2. In altre parole, l’articolo evidenzia che al momento la comparazione e’ tra mele e pere, e non ha molto senso. Gli inventari sono e saranno la base per misurare il raggiungimento degli obiettivi di Parigi.
Come dici anche tu, la comunità scientifica ha il dovere di controllare se i dati forniti dai singoli Paesi sono sottostimati – ma prima si deve cercare di comparare mele e mele. E per questo serve uno sforzo reciproco di comprensione tra diverse comunità’ che finora non si sono molto parlate.
Non mi pare affatto di aver attribuito all’ articolo una mia opinione. Non per nulla ho scritto “imo” nella mia considerazione precedente.
Poi è senz’ altro vero che gli obiettivi volontaristici di Parigi si basano sulle pere degli inventari nazionali invece che sulle mele delle valutazioni scientifiche. Solo che questo imo è un problema vista l’ oggettiva debolezza della comunità scientifica dei climatologi nei confronti degli enormi interessi politico economici che le varie Nazioni possiedono, in maniera diversificata, di fronte alle azioni reali di contrasto del GW.
[…] L’adattamento a più elevate temperature di una foglia in risposta all’aumento del biossido di carbonio – nella simulazione si ipotizza un aumento di un terzo della massa fogliare per area – ha un impatto realmente significativo sul ciclo climatico e sul ciclo del carbonio nel sistema terrestre. La produttività primaria netta globale di assorbimento di anidride carbonica diminuisce di una quantità pari alle attuali emissioni annue di combustibili fossili. Si rende pertanto necessario prevedere come gli ammassi vegetali risponderanno alle condizioni ambientali future, così da includerli nelle proiezioni climatiche. Va notato che l’attuale patrimonio arboreo del pianeta, secondo uno studio del 2017, avrebbe la capacità di ridurre l’emissione di sette miliardi di tonnellate di CO2 all’anno entro il 2030. […]
[…] Da Climalteranti, Giacomo Grassi del JRC europeo di Ispra spiega il suo paper sulle foreste quali carbon sinks (Nature Climate Change). […]